Dy popuj, një dheu — Due popoli, una terra

da | 04.12.25 | Non classé

Montagne in specchi

Accade talvolta che tra due popoli senza confini comuni, distanti più di mille chilometri, si tenda una linea invisibile – non per ragioni politiche o di interesse, ma per una forma di riconoscimento nata dalle coincidenze della storia. Tra la Svizzera e le terre albanesi, questa linea ha preso la forma di un’eco lunga, come se due montagne lontane si rispondessero attraverso vallate, altipiani e corridoi di vento. Gli Albanesi arrivati in Svizzera non vennero per conquistare, ma per sopravvivere, lavorare, trasmettere. Portavano con sé una cultura scolpita dalla pietra e dal pendio, dalle case che resistono alle stagioni, dalla memoria lunga dei villaggi. E in Svizzera trovarono un suolo dove questa memoria non si dissolse, un paese che conosce anch’esso cosa significhi vivere in quota, contare sui propri, tenere insieme libertà e discrezione. Nelle officine, nelle scuole, nei comuni, nei club di calcio, gli Albanesi scoprirono un paese in cui la pluralità linguistica non è una minaccia ma un modo di essere. E la Svizzera riconobbe in loro un movimento che le era familiare: la fedeltà alla famiglia allargata, l’ingegno quotidiano, l’orgoglio silenzioso, la capacità di custodire la dignità anche nella precarietà. L’albanità non si fuse nel crogiolo elvetico; si innestò. E l’innesto attecchì perché si posò su un tronco che conosceva già la durezza delle stagioni e la sobrietà delle case isolate.

La Svizzera in Albania e in Kosovo

Anche all’inverso, la presenza svizzera in Albania e in Kosovo non ha mai avuto l’odore dell’ingerenza. È nata dall’incontro, dall’esilio, dal ritorno. Gli Svizzeri giunti nei Balcani come cooperanti, insegnanti, ingegneri o artigiani non erano missionari del progresso tecnocratico; venivano spesso con l’umiltà di chi sa che le cose vanno riparate, che le infrastrutture più affidabili sono quelle curate ogni giorno, che le comunità si ricostruiscono come i muri a secco: pietra su pietra. La loro presenza non fu imposta da alcuna grandezza imperiale – che la Svizzera non ha mai cercato – ma nacque da una vicinanza umana, dai drammi del Kosovo e dalle turbolenze dell’Albania attraversata da occupazioni e dittature. E oggi molti di coloro che hanno vissuto in Svizzera tornano in Albania o in Kosovo con uno sguardo che porta in sé entrambi i mondi: il senso elvetico dell’organizzazione, la pazienza alpina e il legame albanese con la casa d’origine, quel focolare dove la terra parla più forte della storia politica.

Affinità montane

Si dice talvolta che le culture alpine e quelle balcaniche siano opposte; in realtà si riconoscono. Entrambe sanno che la montagna non è un paesaggio, ma una scuola. Entrambe sanno che la terra non è un ornamento, ma una condizione di sopravvivenza. In epoche diverse, Albanesi e Svizzeri hanno vissuto sotto lo stesso regime fondamentale: il lavoro manuale, le transumanze, i raccolti che scandiscono le stagioni, le greggi che assicurano continuità alla casa. Il mondo contadino e pastorale non è folklore; è la ragione per cui l’umanità si è mantenuta e si è propagata per diecimila anni. E se si scava nella memoria di questi due popoli, si ritrova la stessa coscienza: senza contadini non c’è società; senza pastori non c’è trasmissione; senza una terra viva e nutriente non c’è futuro.

Il mito del progresso illimitato

Oggi sarebbe facile credere che la modernità ci salverà, che l’aria condizionata ci proteggerà dal riscaldamento globale, che la tecnologia compenserà la scarsità d’acqua potabile. Ma sono illusioni. Il progresso industriale, elevato a religione, ha insegnato agli esseri umani a credersi al di sopra del suolo, come se vivessero su un piedistallo – o su un freddo “piede d’acciaio”, come lo sentivo dire da bambino, un blocco artificiale che sembrava impedire il contatto diretto con la terra. Si può sopravvivere senza schermi, senza reti, senza infrastrutture complesse; ma non si sopravvive senza semi, senza suoli fertili, senza acqua chiara, senza greggi, senza lavoro agricolo. Le guerre di oggi e di domani non si faranno più per spostare confini, ma per mantenere l’accesso a ciò che rende possibile la vita: il cibo, l’acqua, l’ombra, una biodiversità minima. E chi avrà custodito la terra sarà il solo a poter custodire l’umano.

Darëzezë e La Sagne

Forse è per questo che, nel “mio” villaggio di Darëzezë e Re, sento una parentela con La Sagne, il mio luogo d’origine svizzero, il mio Heimatort, quella valle dimenticata dove il vento porta con sé ciò che le città non vogliono più ascoltare. Il mare o la neve non cambiano nulla: esistono luoghi in cui si vede con maggiore chiarezza che la terra è la prima condizione di ogni società. In questi villaggi la gente sa che il mondo è fragile, che gli equilibri si spezzano in fretta, che la continuità non dipende dalle istituzioni ma dalla cura che si dedica alla terra. E in questo specchio Albanesi e Svizzeri si riconoscono forse più intimamente di quanto ammettano: due popoli di piccole patrie, due culture di borgate sparse, due memorie plasmate da greggi, raccolti, boschi, fiumi e dalla necessità di sopravvivere insieme.

Un territorio comune

Fra Albanesi e Svizzeri esiste un territorio che non appare in nessuna mappa: quello dei popoli che sanno che la terra, l’acqua, la casa e la comunità locale restano i fondamenti inevitabili di un futuro vivibile. Un territorio in cui il ritorno alla terra non è un ritorno indietro, ma un risveglio dall’illusione – la decisione di scendere dal piedistallo e tornare al suolo come si torna a una sorgente. Questo territorio, fatto di memoria contadina, lucidità climatica, “tribù federate” e villaggi tenaci, è forse la sola promessa reale in un secolo in cui il progresso non offre più garanzie. Questo territorio vive in chi abita Darëzezë o La Sagne, Tropoja o il Giura – in coloro che sanno che sopravvivenza e libertà cominciano dalla terra, e che i popoli delle montagne hanno ancora qualcosa di essenziale da insegnare al resto del mondo.