Novembre Albanese

da | 02.12.25 | Non classé

Nëntori Shqiptar 
Testo in prosa – versione italiana

 

Sono arrivato per la prima volta in Albania il 1º agosto 2022, a Valona. In Svizzera, questo giorno celebra un patto fondatore: una confederazione nata da un giuramento, da una fiducia, da una besa civile, e non da uno Stato-nazione. In Albania, lo stesso giorno, mettevo piede nella città dove, il 28 novembre 1912, fu issata la bandiera rossonera dell’indipendenza. Non eravamo venuti come turisti. Cercavamo un luogo semplice, silenzioso, vicino al mare. E il caso — o la provvidenza — ci condusse a Darëzezë e Re, un villaggio alla fine di una strada che non porta da nessun’altra parte se non al bordo dell’Adriatico. Un luogo che non si incontra mai per caso.

Gli abitanti ci accolsero con una generosità disarmante: ci fecero sedere, ci nutrirono, ci ascoltarono; ci offrirono un caffè, un raki, una parola in più in una lingua che non conoscevo. Alla fine della prima settimana, la domanda «Potresti vivere qui?» non aveva più bisogno di risposta. L’aveva già ricevuta. Alcuni mesi più tardi tornai da solo. Imparavo la lingua lentamente, i gesti del villaggio molto più velocemente. Volevo scrivere la storia di Darëzezë e Re. Pensavo bastasse ascoltare e poi raccontare. Ma la lingua resisteva, le porte si chiudevano, le collaborazioni evaporavano.

 

All’inizio del 2024, il progetto era “in coma”. Poi un’ernia del disco ruppe e sospese tutto. E tuttavia, con il passare dei mesi, tra Tirana e il villaggio, qualcosa cambiò: non cercavo più di spiegare un villaggio. Cominciavo a capire un’Albania che non avevo ancora mai visto. A Tirana trovavo la cultura, i dibattiti, la diversità. Al villaggio trovavo la verità, la lentezza, la vulnerabilità. Due vite parallele, impossibili da riunire e tuttavia entrambe necessarie.

 

Fu allora che compresi una frase che sentivo ovunque: Nuk ka më besim — non c’è più fiducia. La sfiducia è divenuta l’istituzione più stabile dell’Albania post-1997. E paradossalmente, spesso mi si dava fiducia proprio perché ero straniero. Da questo incrocio — questa fiducia ferita, e tuttavia donata — nacque Albanografia. Uno sforzo per scrivere ciò che resta, ciò che manca, ciò che fa male e ciò che può guarire. Nëntori Shqiptar è il mese in cui l’Albania parla di sé. Io, che sembro fare domande, in realtà non faccio che ascoltare.

 

Il 22 novembre commemora il Congresso di Monastir del 1908, quando insegnanti, scrittori, preti, poeti, bektashi, patrioti e autodidatti si riunirono per unificare l’alfabeto albanese. Non fu un atto di Stato. Non fu una decisione militare. Non fu nemmeno una decisione politica in senso stretto. Fu un atto della società civile: un atto di memoria, di lucidità, di sopravvivenza. Un gesto che offrì a un popolo disperso — talvolta umiliato, talvolta perseguitato — uno strumento unico: una lingua comune scritta da sé stesso. Il Congresso di Monastir riuscì nell’impresa di creare un alfabeto capace di mettere su carta la lingua così come è parlata, una scrittura organica che unificava le differenze delle valli e delle montagne, del paese e della diaspora. Un sistema coerente ancor prima che la linguistica moderna nascesse come scienza. L’albanese non è stato forgiato nelle cancellerie imperiali né nelle accademie, ma nelle case, nelle teqet, nelle odat, nei villaggi, nelle diaspore di miseria e di fierezza. Il 22 novembre ci ricorda questo: l’albanese è più antico della sua scrittura, e la sua scrittura è più antica del suo Stato. Un popolo può esistere prima dello Stato, e talvolta perfino nonostante esso.

 

Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, non è festa nazionale in Albania, né in molti altri paesi, benché riconosciuta dall’ONU. Eppure, ovunque nel mondo, le donne sono le prime vittime: nelle guerre, nei conflitti civili, nello spazio pubblico e in quello domestico. Solo in Germania, nel 2023, 360 donne sono state uccise dal partner o da un familiare. E gli omicidi non sono che la punta dell’iceberg.

 

L’Albania non vive su un altro pianeta. Scrivere dell’Albania senza evocare la violenza contro le donne sarebbe evitare il cuore della realtà. E sarebbe particolarmente falso qui, nella Bashkia di Fier, in novembre, il mese in cui si commemora la Liberazione dal fascismo. Perché nel settembre 1943, 68 ragazze di Fier si unirono alla Resistenza. Due caddero: Liri Gero e Pinellopi Pirro. Liri fu bruciata viva dai nazisti. Altre furono ferite. Alcune, dopo la guerra, furono perseguitate dalla dittatura comunista: vittime due volte, del fascismo e dello Stato albanese.

 

La violenza contro le donne esisteva prima della guerra, prima della dittatura, e non è scomparsa dopo la Liberazione. Vive nelle abitudini, nelle battute, nei silenzi, nella stanchezza, nella vergogna. Spesso comincia prima ancora che una parola venga pronunciata.

 

Come la storia di quella liceale di Tirana, all’inizio del secolo, che aveva cominciato a “vivere come un ragazzo” — abiti, linguaggio, atteggiamento — fino a dire che non poteva essere una donna perché amava le donne. Oggi la interpreteremmo diversamente. Ma le sue compagne e le sue insegnanti avevano capito: figlia unica, schiacciata da un padre onnipotente, aveva assunto un ruolo maschile per sfuggire all’idea che la femminilità fosse inferiorità. Questa storia non è rara. È profondamente contemporanea. E risuona in modo curioso con una figura antica: le burrnesha, quelle donne del Nord che assumevano un ruolo maschile per sfuggire al matrimonio forzato o per ottenere diritti negati alle donne. Allora si doveva giurare la verginità a vita. Oggi basta una pressione, un’umiliazione, un’ombra di violenza perché un’adolescente pensi di dover smettere di essere sé stessa per poter respirare. (La ragazza ha poi ritrovato la propria femminilità grazie all’aiuto delle insegnanti e delle amiche.)

 

I tempi cambiano, ma le ferite no. La ferita comincia con un’idea: che la donna valga meno dell’uomo. E un’idea può fare più danni di un pugno. Il 25 novembre non è un giorno contro gli uomini. Non è un tribunale, né uno slogan importato. È uno specchio. Uno specchio che la società evita perché mostra una verità semplice: senza le donne, nulla regge. E tuttavia sono loro quelle che si feriscono più facilmente.

 

Lo dico come uomo e come padre: fare del male a una donna o a una ragazza significa perdere la propria dignità. Perché la tua esistenza comincia nel corpo di una donna. Perché sei nato grazie a una donna. Perché la tua continuità passa attraverso una donna. Perché la tua memoria, la tua eredità, il tuo nome vengono da lei. Nessun uomo diventa uomo se non onora colei che gli ha dato la vita. E nessun uomo rimane uomo se non rispetta colei che dà la vita a suo figlio. Alla fine, è la donna che fa l’uomo. Prima della protezione viene il rispetto. Senza rispetto non c’è società — solo case in cui si sopravvive tra vergogna e dolore.

Il 25 novembre non è un rimprovero. È un promemoria: una società che maltratta le donne distrugge sé stessa. Per questa Albania che amo, ho incluso questo giorno nel mio Nëntori Shqiptar. Per una società che protegge, onora e guarisce.

Il 28 novembre, la Giornata della Bandiera, non è solo un anniversario storico. È la festa di un segno. E questo segno è più antico dello Stato, più profondo della politica: l’aquila. L’aquila non è un simbolo decorativo. È un alfabeto vivente. Uno sguardo, un atteggiamento, un’altezza: un modo di stare nel mondo. In albanese, shqip significa parlare chiaramente, dire apertamente, non mascherare la verità. L’aquila è la visione; la lingua è la parola. La bandiera albanese è unica: non rappresenta un regno scomparso, né un impero crollato, né un territorio protetto da mura. Rappresenta un carattere, una memoria, una postura. Un popolo che non aveva uno Stato, ma aveva un emblema. Non aveva un esercito, ma una figura. Non aveva frontiere, ma un’identità trasmissibile. Il 28 novembre non è tanto la nascita di uno Stato quanto il riconoscimento di una continuità: l’Albania esisteva prima dell’Albania.

 

Il 29 novembre, la Giornata della Liberazione, non è una fine. È un inizio. Non ci si libera semplicemente quando l’occupante se ne va. Non ci si libera quando le statue cadono. Non ci si libera quando la dittatura crolla. È lì che si comincia davvero. Il XX secolo albanese lo ha mostrato chiaramente: ogni liberazione ha lasciato una ferita aperta. L’indipendenza ha lasciato la divisione. L’occupazione ha lasciato il lutto. La Liberazione ha lasciato la dittatura. La caduta della dittatura ha lasciato il vuoto. Il 1997 ha lasciato la vergogna e la sfiducia. Per questo la Liberazione deve essere pensata come un atto, non come un evento concluso.

 

In Albania, il 29 novembre commemora la liberazione dal fascismo. Nel resto del mondo, lo stesso giorno è la Giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese: un popolo sotto occupazione, disperso, umiliato, oppresso e mutilato, ma vivo, parlante, resistente e perseverante. Esistono affinità invisibili tra popoli feriti. Gli albanesi lo sanno, anche quando lo Stato lo ignora. Riconoscono il dolore negli altri. Sanno che la libertà non è mai acquisita — si costruisce e si ricostruisce. Il 29 novembre non è una pagina voltata. È una pagina da riscrivere ogni anno.

 

In Albanografia, Nëntori Shqiptar non è una serie di celebrazioni nazionali. È una mappa: la mappa di tutto ciò che ha permesso agli albanesi di sopravvivere senza Stato, di comprendersi senza libro, di rimanere sé stessi senza frontiere, di rialzarsi senza garanzie. Scrivere Albanografia non è scienza né reportage. È un atto di fedeltà. Un tentativo, da parte dello Straniero che sono, di rispondere a ciò che ricevo qui: una lingua, un’ospitalità, una lucidità antica, una rara capacità di sopravvivere insieme.

 

Se esiste un filo che unisce il 22, il 25, il 28 e il 29 novembre, è questo:

gli albanesi hanno vissuto, sono sopravvissuti e hanno avanzato grazie alla parola, alla memoria, al movimento, alla dignità e alla solidarietà. Nëntori è il mese in cui tutto ciò si vede con maggiore chiarezza. Albanografia è il mio modo di testimoniarlo.